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«A 4 mila metri sono stato dal dentista»

C’è in lui qualcosa del Phileas Fogg di Jules Verne, forse quel fascino azzimato da avventuriero borghese senza terra e senza tempo che mette sul piatto pelle e quattrini per acchiappare «il sogno della vita, sennò che stiamo qui a fare?». E poi pure qui si percepisce forte il senso della scommessa come attrazione magnetica very british , «perché il limite non esiste, il limite sei tu». La differenza è che mister Fogg impiegò i famosi ottanta giorni per fare il giro del mondo e spillare le 20 mila sterline ai soci galantuomini del Reform Club di Pall Mall, London, mentre il notaio Aldo Garioni from Brescia con l’aleatorio ci ha duellato per se stesso, «per chiudere un cerchio esistenziale dopo il notariato, inteso come raggiungimento degli obiettivi professionali, e la creazione di una famiglia, che è il compimento dell’essere uomo». Però poi c’era sempre lei, la Madre dell’Universo, meglio nota fra gli occidentali come Everest, 8.848 metri di ghiaccio e sassi e preghiere e freddo cane. Per il dottore, fra l’altro da quasi vent’anni presidente della Società Escursionisti Bresciani Ugolini, il tetto della Terra non era proprio un’ossessione, ma qualcosa di simile.

«Era appunto il completamento di un intimo percorso di vita - racconta al Corriere nel suo studio di Travagliato al rientro dopo i cinquanta giorni di viaggio sull’Himalaya, mostrandoci i calzoni larghi sul didietro per via dei 12 chili lasciati in quota -. Era la seconda volta che ci provavo, nel 2010 me la sono vista abbastanza brutta».
Vedersela brutta sopra gli ottomila significa rischiare la pelle, lì fu una specie di infezione intestinale a tranciargli il sogno a un pugno di metri dalla punta. Allora con lui c’era il bergamasco Simone Moro, stavolta il notaio si è portato dietro uno di famiglia, quel Silvio Gnaro Mondinelli noto ai più per essere uno dei pochi scalatori ad aver raggiunto le quattordici vette più alte del mondo senza ossigeno, ma che col suddetto è anche imparentato. «È il cugino di mio suocero, e infatti sapendo della sua presenza mia moglie Bice e i miei figli Federico e Andrea erano un po’ più tranquilli. Perché è vero che sull’Everest oggi ci vanno 400 persone l’anno. Lo dimostrano i nove cadaveri incontrati dagli 8.300 in su. Un giapponese davanti a me è impazzito, si è levato guanti e scarponi a -40 e si è messo a correre. È morto poco dopo. Ossigeno rarefatto. Insomma, non è una passeggiata, fidatevi». Quello no, certo. Non si può più definirla un’impresa come quella del ’53 dei pionieri Hillary e Tenzing, ma i rischi restano, specie se si sceglie – come hanno fatto i nostri – l’ascensione dalla parete nord, quella cinese, più insidiosa e meno commerciale rispetto al versante nepalese.
«Ci siamo affidati alla Kobler, un’agenzia svizzera specializzata nell’organizzazione del viaggio. Con me e Silvio c’erano altri alpinisti, fra loro una donna ecuadoregna e due svizzeri-tedeschi più uno sherpa ciascuno. Uno dei due svizzeri, un certo Gerard, primario in maxillo-facciale, mi ha operato a un dente a 4 mila metri, dalle parti di Gyantse, adoperando il frontalino da arrampicatore e gli attrezzi a noleggio di un vecchio cavadenti del posto». Dimensione avventura.

«È una cosa strana, lassù. È vero, in vetta c’è la coda di gente che sale dal Nepal, ma resto convinto che l’Everest non sia per tutti. Anzi». Una volta lassù l’allegra brigata ha festeggiato a omelette e Ruinart Blanc de Blancs. «I sogni realizzati vanno onorati come si conviene». Già, ma quanto costa un sogno? «Diciamo come una bella macchina». Diciamo bella come una Maserati GranTurismo, ecco.

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